“Loro non lo sapranno mai”, la lettera dell’ultima chiacchierata con il mio amico Bighi

Vogliamo mostrarvi una lettera che oggi ci è tornata in mente, risale a un paio di anni fa ma è una di quelle che ti rimane nel cuore. Forse molti di voi l’hanno già letta e conoscono il gatto a cui è dedicata, l’adorabile Bighi di Matteo Pedrini. E’ stato proprio lui ha scriverla sul suo blog personale per condividere con il mondo quel doloroso e intimo momento in cui il suo compagno di vita è volato in paradiso. Una lettera con parole sincere, con cui nemmeno noi saremmo mai riusciti ad esprimerci, parole che riescono a far vedere come questo grande uomo è fatto dentro, come la sua anima pura ha amato davvero un animale e non si è vergognato di dirlo ai suoi numerosi fans, con la consapevolezza del rischio di essere criticato dai scettici che potevano considerarlo esagerato. Ma invece Matteo è stato apprezzato ancora di più e diventato un uomo ammirato e sostenuto da migliaia di persone. Ma senza che ci prolunghiamo oltre, vi facciamo avvolgere direttamente dalle sue parole:

Loro non sapranno mai (L’ultima chiacchierata con Bighi)

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E così sei andato via anche tu. E sono costretto a dirlo a tutti perché, tuo malgrado, forse, ti avevo trasformato in un personaggio pubblico. Eri in tanti miei scritti, addirittura nella biografia nell’interno copertina del mio libro.
Mutilato. Ecco come mi sento. E non m’importa che capiscano, sai. Non mi tocca che mi diano dell’esagerato, del tragico. Tutto questo dramma per un gatto. Non me ne può fottere di meno. Anzi, ti dirò caro Bighi, li capisco. Ti dirò grande Bigolino, forse al loro posto penserei lo stesso triste, dozzinale luogo comune. Tutto questo dramma per un gatto.
Perché loro non c’erano mica. Non c’erano qui, qui dentro dico. Non erano con noi.
Non c’erano quella sera di novembre del 2006 quando ho aperto il portone del palazzo di via Mascheraio, quando ho acceso la luce e ho sentito il tuo primo “Miao”. Quando mi sono avvicinato a quella cestina fuori dalla porta di Sandro e la Fede e ci siamo guardati per la prima volta. “E tu chi cazzo sei?” e tu, anziché rispondere “Ma chi cazzo sei tu?”, mi hai guardato stringendo gli occhi gialli e hai iniziato a fare le fusa, così, sulla fiducia, senza che nemmeno ti sfiorassi. Non c’erano quando ho detto “beh dai, lo tengo io per il momento, poi intanto gli troviamo una casa” e quel momento è durato otto anni, quattro case e un milione di avventure. Tutto questo dramma per un gatto. Non c’erano mica loro, caro bimbo mio, quando ti ho insegnato a farla nella cassettina e tu, più che un gatto che piscia o caga, sembravi una ditta di movimento terra. Eri un demonio magro e lungo, con orecchie, zampe e coda sproporzionate. No adorato Bighi, non c’erano loro quando ti ho insegnato a salire la scaletta di ferro che portava al letto in soppalco. E a scendere ovviamente. Prima sembravi un tetraplegico appena miracolato, poi, in due ore, andavi su e giù come un lampo. E io come un papà che ha appena tolto le ruotine alla bicicletta del figlio mi sono commosso e ti ho abbracciato. Non c’erano quando ho tardato a sverminarti e mi hai svegliato vomitandomi sul petto una famiglia intera di vermi vivi, facendo vomitare me a mia volta. E quella notte non avevo le lenzuola di ricambio e abbiamo dormito tutti e due sul materasso nudo con delle bestemmie terrificanti che tu ascoltavi facendo incuranti fusa. Non c’erano quando Inzaghi ha segnato il secondo gol al Liverpool e ti ho fatto volare in aria tre volte. E neanche quando abbiamo scritto insieme decine e decine di canzoni, io seduto sulla sedia e tu sulla scrivania, costantemente a urtarmi la penna con la zampa mentre scrivevo, facendomi tirare righe a cazzo sul foglio. Loro non c’erano quando abbiamo dormito appiccicati tutte le sante notti. E nemmeno quando usciva di casa una ragazza e ti chiedevo “Cosa dici? Va bene questa?” e mi guardavi compatendomi. Non c’erano quando hai bevuto il caffè da una tazza che avevo lasciato in giro, né quando ti ho beccato a mangiarti una Fiesta intera e ho fatto finta di non vederti. Beh, sappi che ti avevo visto. Tutto questo dramma per un gatto. Ed eravamo sempre e solo io e te quando arrivavo a casa sbronzo perso e barcollando mi trascinavo a letto e tu volevi farmi “pane” sulla pancia e io “no Bighi che sbocco” e allora mi mettevo a pancia in giù. E tu facevi “pane” sulla schiena. Non c’erano quando giocavi a unghie spianate coi miei piedi mentre facevo l’amore e mi toccava fermarmi dalle risate perché “no, dai, così non riesco…”. Non c’erano quando ti portavo in piazza col guinzaglio a vedere il mondo, che in quel monolocale putrido stavi dando di matto. E le foto coi turisti. E le coccole dei passanti. Tutto ti facevi fare. Egocentrico come il tuo papà. Loro non c’erano mica. Erano tutti impegnati a fare figli, sposarsi, quelle cose lì, da adulti, mentre io ero con te a raccontarti la giornata di merda al lavoro, la litigata con mia madre, il gol con i Columbias. No, non c’erano quando io e Luca ti abbiamo infilato le mutandine che aveva lasciato a casa mia quella là e tu giravi per casa tentando di togliertele. E neanche quando giocavamo al Wrestling sul letto: io Randy The Ram e tu Scrotofeltri. Non c’erano quando ti ho portato in macchina a salutare la nonna Ivana malata, per l’ultima volta e tu l’hai annusata e le hai leccato la mano. Non c’erano quando il mio lutto l’ho consumato da solo in casa. Quando scoppiavo a piangere e tu arrivavi. Arrivavi sempre. “Non piangere papà” c’era in quelle carezze che facevi col muso sul mio mento. Asciugandomi il viso zuppo. Non c’erano quando hai consumato qualcuna delle tue vite per colpa dei calcoli renali. E corse notturne dalla guardia medica. Ascoltava i Police alla radio quella notte il dott. Marchi. E io ti tenevo la testa mentre l’anestesia faceva effetto. Non c’erano loro, infinito bimbo mio, quando ti abbiamo dovuto evirare perché l’alternativa era morire. E neanche quando, svegliatoti dall’anestesia, ti leccavi la ferita e mi guardavi con gli occhi strabuzzati, “Ehi, niente scherzi. Sono pronto a scommettere che qui prima c’era un pisello”. No, no, non c’erano mica. Eravamo io te. Non c’erano quando le prendevi da Icio e io anziché difenderti ti davo del babbeo, “Fatti rispettare rincoglionito!” e poi siete diventati amici per la pelle. E poi addirittura fratellastri. Né quando ti sei invaghito di Giulietta che, da buona gatta ferrarese, se la tirava a manetta, te l’ha fatta annusare e poi, appurato che eri senza uccello, si è messa con Icio. Non c’erano mentre ti osservavo guardarli straziato d’amore mentre giocavano rotolandosi nell’erba. Ma tu sbagliavi tattica, te l’ho detto. Quegli agguati a Giulietta con te che sbucavi da dietro le colonne, hanno finito per tediarla. Ci voleva distacco, te l’ho ripetuto mille volte. È il Teorema di Ferradini. Ma poi, infondo, come si fa a darti torto: io sono l’ultimo in grado di pontificare sulle relazioni. Tutto questo dramma per un gatto. Ovvio, loro non c’erano. Non c’erano ogni mattina che Dio mandava in terra e tu sentivi la sveglia prima di me, anzi, prima che suonasse, quei dieci minuti che io non capirò mai come cazzo riuscivi ad azzeccare a prescindere dall’orario in cui la puntavo, che variava, ma tu niente, dieci minuti prima, seduto a un centimetro dalla mia faccia, con quella zampetta maledetta ad accarezzarmi la barba. E se non ti cagavo entro cinque minuti scattava il piano B: ribaltamento oggetti dal tavolo, ma non oggetti casuali: monete, chiavi, armoniche, tutto ciò che faceva più rumore. E in casi estremi, il piano C: la pisciata sulla scrivania. Tutte le mattine. Non c’è che dire, eri una sveglia infallibile. Macchè, non c’erano loro quando ci facevamo la doccia: io dentro e tu fuori, sul tetto della cassettina dei bisogni a farti la tua di doccia, con la lingua, ogni singola sera. No stupendo Bigolone, non mi aspetto che mi credano. Penseranno che sto esagerando, estremizzando, fantasticando per rendere più coinvolgente e commovente il racconto. Certo, è normale, loro non c’erano. Neanche quando in piena notte, con 39 di febbre, mi sono arrampicato in cima a un albero perché non riuscivi più a scendere e giù c’era tutto il palazzo e anche Giulietta. Che figura di merda, povero bambino mio. Non c’erano quando cercandoti nel cortile del palazzo dietro il nostro ho preso in braccio un gatto identico a te pensando fossi tu e lo stavo portando a casa. E tu sei uscito fuori da chissà dove miagolando quella che a me sembrò una risata di scherno. Non c’erano quando tutti i giorni in cui avevo la partita mi osservavi lucidare le scarpe da calcio, senza perderti una mossa. Era il nostro rituale. E io ti parlavo della partita che avrei giocato, degli avversari, della classifica. E tu ascoltavi. Non c’erano tutte le notti insonni, seduto a terra con la testa tra le mani a fumare e maledire chissà chi, con te a fianco, sempre. E io lasciavo che tu fossi l’unico essere vivente a vedermi così. Perché tu sapevi cosa fare. E lo hai sempre fatto. Certe cose le ho dette solo a te. Certe lacrime le ho piante solo sulla tua spalla. No, loro non c’erano. Neanche l’altra notte quando insieme a Icio ho vegliato il tuo corpicino tutta la notte. Dilaniato da una macchina che hai sfidato per l’ennesima volta. Ma stavolta ha vinto lei. La potrei polverizzare a mani nude se solo ce l’avessi qui, tanta è la rabbia. Feroce, inesausta. Inutile. E non c’erano stamattina quando sono scoppiato a piangere davanti a un’imbarazzata fiorista mentre ti compravo una rosa da parte della tata Stefy e un fiore dal nome impronunciabile, ma che è tanto bello. Non c’erano mentre ti scavavo la fossa, bella larga perché stessi comodo. Non c‘erano mentre riponevo il tuo corpo rigido con un gesto che mi ha riportato a quando chiusi gli occhi a mia nonna. Quando ti ho messo vicino il tuo orsetto bianco, perché non ti senta solo e il tuo topino preferito, se ti venisse voglia di giocare. E uno scroscio di lacrime, in quella fossa con te. Non c’erano quando proprio non riuscivo a riempire di terra la buca, a sotterrare il mio bimbo spettacolare e irripetibile. Il mio coinquilino per otto anni, il mio amico migliore, la mia storia d’amore più lunga, un pezzo di me, che se avessi un dio qualunque lo ringrazierei in eterno per averti spedito nella mia vita sbilenca. O forse lo maledirei per averti fatto partire troppo presto. Non c’erano quando ho preso un respiro e ho scaricato la mia furia su quella vanga ricoprendoti e poi mettendo quel fiore bellissimo che ora nutrirai. Perché non ti sei mai risparmiato e non lo farai mai. Loro non capiranno mai e non m’importa. Loro non c’erano e non ci sono nemmeno ora che ti scrivo questa lettera piangendo senza riuscire a smettere un attimo, per dirti di andare piccolo mio, vai, riposati bimbo, mia hai dato tutto, ora puoi riposare. Io spero di averti regalato una vita bella, ti giuro che ce l’ho messa tutta.
Ti ho amato come il figlio che forse non avrò mai, mio immenso Bighi. Tutto questo dramma per un gatto. Nessuno capirà mai, loro non c’erano.
Loro non ci sono nemmeno ora, in questa casa improvvisamente vuota.

Il tuo papà

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